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LA RESCISSIONE DI GIUDICATO: TRA TEORIA E PRATICA 

(FOCUS SU CASSAZIONE PENALE SEZ. VI 28636/2022)

A cura di Avv.ti Paolo M. Strozzi, Matteo Crosa e Sandro C. Strozzi

 

La rescissione di giudicato è un istituto disciplinato, oggi, dall’art. 629 bis c.p.p. (in precedenza art. 625 ter c.p.p., introdotto dalla legge 67/2014), che consente all’imputato giudicato in “assenza” nel corso del processo e condannato con sentenza passata in giudicato, di chiedere la revoca della stessa provando una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo.

La richiesta va presentata, personalmente dall’interessato o dal suo difensore munito di procura speciale, entro trenta giorni dalla conoscenza del processo e va proposta alla Corte d’Appello nel cui distretto ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento. Il provvedimento della Corte d’Appello è poi ricorribile per Cassazione.

La Corte d’Appello, che decide ai sensi dell’art. 127 c.p.p., se accoglie la richiesta, revoca la sentenza e dispone la trasmissione degli atti al giudice della fase o del grado in cui si è verificata la nullità.

Trattasi di un mezzo di impugnazione c.d. straordinario, in quanto idoneo a incidere sul giudicato.

Come detto, essendo proponibile dall’imputato giudicato in “assenza”, trattasi di un rimedio che va letto in combinato disposto con l’art. 420 bis c.p.p., volto proprio a disciplinare l’istituto giuridico dell’”assenza”.

È richiesto, infatti, un onere probatorio in capo al ricorrente, il quale deve provare di essere stato dichiarato assente in mancanza dei presupposti previsti dal predetto articolo 420-bis, e di non aver potuto proporre impugnazione della sentenza nei termini senza sua colpa.

L’onere probatorio, tuttavia, non si esaurisce in questi adempimenti, dovendo il ricorrente dare atto del momento in cui lo stesso ha avuto conoscenza dell’esistenza del processo e/o della sentenza di condanna, in quanto, come visto, è da tale momento che decorre il termine (perentorio) di trenta giorni per presentare istanza.

La Corte d’Appello, investita del ricorso, dovrà quindi effettuare, necessariamente, un giudizio cartolare ed ex post. Vediamo in che termini.

L’istituto giuridico in questione pone l’accento sulla distinzione tra conoscenza legale e conoscenza effettiva del processo, nonché su quella tra vocatio in ius e vocatio in iudicium.

In un caso patrocinato dalla scrivente Difesa, conclusosi con la rescissione della sentenza di condanna, la Corte di Cassazione (Cass. Pen. Sez. VI n. 28636 /2022) ha analizzato proprio tali dicotomie. Accogliendo la tesi difensiva, gli Ermellini hanno statuito che, per potersi parlare di processo equo (in ossequio al dettato dell’art. 111 Cost. e alle direttrici della giurisprudenza europea) non sia sufficiente la conoscenza legale del processo, ovvero quella derivante dalla regolarità formale delle notifiche, essendo necessaria una conoscenza effettiva, in capo all’imputato, dell’esistenza di un processo a suo carico.

Nel caso sottoposto al vaglio della Corte di Cassazione, l’allora imputato aveva ritirato personalmente l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, mentre la notifica del successivo decreto di citazione diretta a giudizio si era compiuta nelle forme della c.d. “compiuta giacenza”.

Non è infatti sufficiente che l’imputato abbia avuto piena contezza di un procedimento a proprio carico (vocatio in ius), essendo richiesto che lo stesso abbia avuto la conoscenza effettiva del processo (vocatio in iudicium). Conoscenza effettiva che non può quindi dirsi realizzata tramite il perfezionamento formale della notifica per c.d. “compiuta giacenza”.

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